C’è una scatola, che contiene parti di te. Come se ti avessi sfogliata, smontata pezzo dopo pezzo, e raccolta lì dentro. No, niente di macabro, piuttosto qualcosa di violento e perverso, che le parole a volte sanno esser più incisive di mille pugnalate, depravazioni intellettuali, masturbazioni per neuroni stanchi di pensare, ma che trovano ancora la forza di lasciarsi andare a ricordi così, al limite dell’indecenza e oltre.

Penso a questo mentre la guardo, quella scatola, piccolo cubo di cartone, farcito di pagine scritte a mano che non tocco da secoli, e che probabilmente faticherei anche a decifrare adesso, tanto la mia scrittura sa essere contorta, distorta, terribile, talvolta incomprensibile. Sorrido, pensando a come tutti questi aggettivi, si incastrino, in maniera incredibilmente perfetta, anche con la percezione che ho di te, o del ricordo di te, se preferisci. 

Penso a questo mentre guardo quel contenitore di minuti, di azioni finite su carta, riassunti sbiaditi di pezzi di vita, essenza d’esistenza passata, senza l’essenziale: l’azione, sfumata chissà dove, rimasta prigioniera dell’attimo vissuto, schiava del mio ricordo. 

Scatola impolverata, inanimata, involucro diventato con gli anni, complemento d’arredo del mio ufficio, sul quale talvolta poggio i piedi mentre rifletto e perché no, mentre ti penso, che razzolare in quell’acqua torba che avvolge il nostro vissuto insieme, mi da anche modo di risolvere molti conflitti rimasti sospesi nel mio passato. Di questo, devo ammetterlo, spesso ti ringrazio.

Sorrido leggendo la scritta a pennarello rosso che compare su uno dei lati della scatola: effetti personali. Il riferimento al brano di Sergio Caputo è puramente casuale, o forse no, lo sai che faccio spesso a pugni con il mio subdolo subconscio.

Scuoto la testa, prendo un pennarello nero e appongo una “a” sopra la prima “e”, trasformando la scritta in: affetti personali, che qualche merito, è dovuto e preteso ammetterlo, ce l’hai anche tu. Ecco, un’altra rimozione è stata messa in atto.

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