Momenti incastrati tra passato e futuro…

A volte, come è successo oggi, vengo a dar da mangiare alle papere, che vivono nello stagno del parco, a pochi passi da casa mia. Quando Livia era più piccola, un paio di anni fa, questo era uno dei nostri rituali preferiti. Dal lunedì al sabato mettevamo rigorosamente da parte il pane, poi, la domenica mattina, venivamo al parco, ci sedevamo sull’anello d’erba che circonda lo stagno e nutrivamo le papere. 

Oggi lo facciamo raramente. Spesso vengo qui da solo, per riflettere, leggere, a volte scrivere, porto sempre con me del pane. Il rituale in qualche modo, indubbiamente sotto un’altra forma, è stato preservato. 

Lo stagno è rimasto quel luogo pieno di magia di un tempo. Quando mi ritrovo qui, seduto sulle sue sponde, chiudo gli occhi e posso sentire nitidamente la voce di Livia che comincia a dire le sue prime, incerte parole, tra una risata e l’altra. Oggi non fa che parlare, come una gazza, ciancia tutto il tempo, ininterrottamente, ma all’epoca, erano ancora le risa e i pianti il suo principale veicolo di espressione.

Oramai quel tempo è sfumato, racchiuso nel mio batter ciglio, nascosto al di sotto delle mie palpebre quando chiudo gli occhi, occultato nella mia memoria, sono costretto continuamente a riportato alla coscienza, per far sì che il ricordo, non si perda definitivamente nell’oblio. Getto del pane nell’acqua, viaggio tra passato e presente, un momento sono con lei e l’istante dopo da solo, un momento le cambio il pannolino, quello dopo scrivo note su uno dei miei taccuini, un momento la stringo e le faccio il solletico, quello dopo sospiro alla malinconia del presente oramai passato, un pugno di minuti fa.

La vita è così, papere che mangiano il pane che gli gettiamo, tartarughe sornione che prendono il primo sole primaverile, qualche pappagallo, un soffio di vento a ricordare che esistiamo, che niente ci attraversa, che al massimo siamo noi ad attraversare qualcosa. 

Osservo la mia mano piena di pane, lo lancio. Un rumore sordo, cerchi concentrici che si allargano sullo specchio d’acqua, minuti gettati così, in pasto all’esistenza stessa. Guardo il mondo con malinconia, di fronte a me scorre lento e inesorabile il mio passato. Mi chiedo perché, nel mondo occidentale, abbiamo sviluppato questa visione controintuitiva del passato collocato alle nostre spalle, rispetto al futuro che si estende di fronte a noi. Gli indigeni di alcune tribù sudamericane, invece, visualizzano il passato davanti ai loro occhi, perché lo possono vedere bene, e collocano il futuro alle proprie spalle, tanto è invisibile alla loro vista. Penso a questo adesso, mentre viaggio nel tempo, mentre davanti a me vedo Livia che cammina incerta, a tratti cade, ride come una matta, ed io, in parallelo, la descrivo su questi fogli di carta.