Marine

Quando Marine morì, non rimasero dietro di lei che ricordi, libri, qualche foto in bianco e nero, una vasta collezione di orchidee custodite all’interno della serra e un medaglione d’oro contenente i ritratti dei suoi genitori. Nella vastissima campagna, che circondava la sua piccola e modesta casa, l’autunno aveva già violentato le piante sparse un po’ ovunque che, rosse di sangue, in silenzio, salutarono la sua dipartita. 

Le vedemmo far capolino dal buio della notte, a poco a poco invasa dal sole che, salendo lento accarezzando le colline, accecò la vista di noi osservatori, amici di una vita giunti là per un ultimo saluto, seduti su una vecchia panchina di legno posta vicino all’ingresso della casa, ad uso di coloro che fumavano e che non avrebbero mai osato farlo all’interno, visto l’odio della nostra amica per l’odore del tabacco bruciato.

La signora delle pulizie  ci aveva chiamati un’ora prima, tutti e tre, numeri di emergenza posti a sigillo del calendario di carta appeso a una delle pareti, quando, arrivando a lavoro, aveva trovato il suo corpo senza vita steso sul divano. 

– Infarto… – aveva detto il medico dell’ambulanza, quando giunto sul posto aveva esaminato il cadavere, dopodiché si era seduto al tavolo della cucina insieme ai due portantini, per riempire le scartoffie burocratiche. Lo osservammo distrattamente, mentre noialtri fuori, avvolti dalla prima luce del mattino e dal fumo delle sigarette, parlavamo del passato, evocavamo ricordi, rintanati nei nostri cappotti, incapaci di proteggerci dal gelo sprigionato dai nostri cuori.

Aspettammo che gli uomini se ne andassero, dopodiché rientrammo in casa e insieme, spostammo il corpo di quella che un tempo era stata la nostra amica sul letto. La donna delle pulizie si adoperò per preparare caffè per tutti, poi, su nostra domanda, cercò l’elenco telefonico e chiamò la locale impresa di pompe funebri.

Seduti sul divano, sul quale Marine se ne era andata, bevemmo le nostre tazzine di caffè, continuando a parlare di episodi oramai distanti milioni di chilometri da noi, in un passato a poco a poco svanito, preso in pegno dalla morte, barattato come moneta, per l’ultimo viaggio della nostra amica. Improvvisamente, in una pausa fatta di silenzio, tra un racconto e l’altro, le lampadine del lucernario si spensero lasciando la sala in balia della fievole luce dell’alba, un quadro raffigurante una natura morta cadde a terra in seguito al cedimento del chiodo di sostegno e fuori, in giardino, alcune gazze ciancicarono qualcosa.

Noi, colti di sorpresa ci guardammo perplessi, forse un po’ angosciati, senza proferire parola. Luce e silenzio tornarono qualche minuto dopo, la morte già scivolata altrove, ci lasciò soltanto il rumore cadenzato delle gocce d’acqua, che uscendo dal rubinetto, battevano sul lavello d’acciaio della cucina, cuore metallico della casa, oramai rimasta priva della sua anima.