2020… Sipario…

Amarezze di un giorno senza sole. Un gatto che miagola, un cane che abbaia, nuvole ovunque a coprire il cielo, a stendersi lontano oltre l’orizzonte. Pioviggina, forse, dalle finestre non vedo bene e non mi sono ancora deciso a uscire. C’è odore di pane caldo e marmellata, qui in cucina, e poi di caffè e latte. Musica classica proveniente da frequenze della radio non sospette, schiaccia il silenzio contro le pareti e lo soffoca, uccidendolo. Alla solitudine del martedì, in questi giorni di pandemia e quarantena e smart-working, rispondo con fare tranquillo, sornione, muovendomi lento tra i mobili, decidendo accuratamente l’angolo della casa dal quale lavorerò. A volte mi siedo per terra, su un cuscino, spesso resto alla scrivania, più raramente mi distendo sul divano o mi sistemo al tavolo della sala da pranzo. Dipende tutto da come si sente il mio corpo, da quanto è riposato il mio cervello.

Stiamo sottovalutando questo momento, la nostra incredibile adattabilità fa si che non ci rendiamo adeguatamente conto di quanto pesante sia il periodo che stiamo vivendo. È una pesantezza strana, psicologica, incosciente, un qualcosa che filtra al nostro interno, attraverso i giri e i solchi cerebrali, attraverso i ventricoli, ci inonda e avvelena a poco a poco i nostri pensieri.

Fingiamo normalità, ma non ci capiamo più niente. Persi, non sappiamo se acquistare qualcosa per farci un regalo, andare in giro a fare una passeggiata, oppure restare a casa ad aspettare che succeda qualcosa. E mentre cerchiamo di vivere, anime in pena, il fastidio delle mascherine sulla pelle, gli occhiali che si appannano, la gente che intorno a noi si ammala e a volte muore, la fiducia che ora sale ora scende in funzione delle notizie contrastanti del giorno, confidiamo le nostre speranze nel futuro, nel vaccino, nella fortuna, nel niente del domani che ancora non esiste.

Nella follia del non accettare che tutti stiamo soffrendo come mai avremmo immaginato, cerchiamo normalità, cerchiamo di individuare il nostro attuale nemico, ma non sappiamo più se prendercela col governo, con il sistema, con l’industria, con gli dei che adoriamo e nei quali crediamo, oppure lasciar perdere e osservare il caos che si sta stendendo in ogni dove, attraverso le vie delle nostre città, tra le serrande abbassate dei numerosi esercizi che non apriranno mai più, tra i parchi, i giardini, nei palazzi del potere, nelle stanze delle nostre abitazioni, che oramai trasudano di angoscia e paura, a volte di rabbia, spesso di impotenza, arrendendoci al fatto che questa volta un nemico non c’è, a parte noi stessi.

Fingiamo normalità, ma non troviamo pace in niente. Disperatamente ci divincoliamo cercando di liberarci dalle invisibili catene che ci opprimono, vittime di una società che ci ha talmente vincolati ad essa, da non permetterci di allentare la tensione e l’attenzione, nemmeno per un secondo, tanto le perdite potrebbero essere enormi.

Fingiamo normalità, ma nessuno è tranquillo e si vede, dai profili social, da quello che le persone pubblicano su internet. Tutto è ricoperto da una strana patina di grigio. I sorrisi, non sorridono più, quelli di nessuno, e dietro gli occhi, che tentano di palesare una forte stabilità un – io me ne frego! Io sopravvivrò! – che manco Mussolini, affiora la paura, mentre nell’assurdo tentativo di tamponare le perdite, si palesa ai nostri occhi l’inutilità di un’esistenza beffarda.

Una primula nelle nostre piazze, come stand per le vaccinazioni, il rifiorire dell’Italia. Rifiorire un cazzo, porta le siringhe, metti un banchetto di legno e drogaci ad uno ad uno, a ripetizione, un individuo dietro l’altro, un passo dopo l’altro, un ingranaggio dietro l’altro, così che ognuno di noi possa tornare a prendere il proprio posto nella grande catena di montaggio umana, così che ognuno di noi possa nuovamente tornare a sorridere nelle foto, nei selfie, sapendo che potrà pagare il mutuo, comprarsi l’auto, fare un regalo ai figli, andare in vacanza e festeggiare un altro cazzo di Natale, nell’illusione che tutto questo abbia un senso, eccetto questo lungo duemilaventi, che tanto abbiamo odiato, ma che alla fine ci ha fatto il regalo più grande, più potente. Calato il sipario del grande baraccone, ci ha mostrato che dietro non c’è niente, solo l’illusione che nei secoli abbiamo creato, e noi disperati che speriamo di morire il più tardi possibile, per concederci inconsciamente il lusso, di alimentarla ancora e ancora.