Reale?

Io e mia nonna, insieme, lei distesa sul letto, io seduto, su una seggiola impagliata, al suo fianco. La stanza piena di ombre danzanti, a causa della poca luce. La vecchia lampadina, dell’abat-jour poggiata sul comodino, sfarfalla lievemente, come a scandire l’ordine del tempo e delle cose, in un mondo che ora esiste e un secondo dopo scompare, per poi apparire nuovamente davanti ai nostri occhi. Il ticchettio della pendola posta nell’anticamera, a pochi metri dall’ingresso della stanza da letto, segnala i minuti passati e conta la vita restante, sospesa tra il rintocco della mezza e quello dell’ora.

Parliamo, piano, io chiedo storie, cronache di vite passate attraverso la nostra famiglia, lei a domanda, risponde con racconti, episodi, antologie familiari, presi qui e là in quasi cento anni di vita. A volte quello che dice ha senso, altre volte gli errori temporali e nominativi impediscono la comprensione e il collocamento temporale dei ricordi, delle persone facenti parte di essi.

La lucidità come la luce dell’abat-jour, va e viene rapidamente, in un via vai irregolare impossibile da controllare. Davanti a lei mi sento incapace di comprendere, mi sento perso, osservo per la prima volta, che lì in quella stanza, alla luce di quella lampadina sempre più fioca, tempo, spazio, fisica, non hanno senso. Le leggi che sembrano regolare la vita al di fuori di quelle quattro mura, lì non valgono più.

Il tempo, per quella donna che è ed era, nonostante non ci sia più, mia nonna, è diventato qualcosa di completamente astratto, futuro e passato mescolati insieme, in un’unica realtà allargata al sempre, ristretta al mai. Anche lo spazio non esiste più, a confermare la sua stretta relazione con il tempo. Agli occhi di mia nonna e nelle sue parole, nelle sue affermazioni, appare come un concetto senza valore, siamo ovunque e da nessuna parte, in qualsiasi e nessun tempo. Perfino la materia, in sua presenza, in questi attimi più prossimi alla morte che alla vita, è cosa da mettere in dubbio e lo capisco proprio durante una delle nostre estemporanee conversazioni, quando voltandosi di scatto verso di me, indica, alzando il braccio e puntando il dito come un profeta, un angolo della stanza – Ecco lo vedi il cane nero laggiù in quell’angolo? È lì seduto e non fa che guardarmi con gli occhi spalancati. Mi guarda serio e non aspetta altro che balzare sul letto per sbranarmi…per mordermi…ha fame… – dice seria. Io mi volto a seguire la direzione del dito, ben sapendo che in quella stanza, che in quella casa, non è presente nessun animale, tantomeno un cane. Guardo nella penombra della luce, poi torno a fissarla dicendole che non c’è niente in quell’angolo. Mento, o almeno, mento per metà. Quel cane esiste e non esiste allo stesso tempo. Non esiste per me, che non lo vedo, esiste per mia nonna, che lo vede e impressionandola, causa in lei una risposta fisiologica reale, di paura.

Quella sera di tanti anni fa, avevo appena vent’anni, decisi il mio percorso di studi universitari e post universitari, decisi che mi sarei interessato di cervello e in particolare di neuroscienze e così ho fatto, ma a onore della mia passione letteraria, cito un passo di un libro di Ernest Hemingway pubblicato postumo, dal titolo True at First Light (Vero all’alba, 1999), che mi sembra particolarmente adatto a concludere questo pezzo, in questo giorno dedicato alla malattia mentale – In Africa, una cosa è vera all’alba e falsa a mezzogiorno, e per questa cosa non si ha più rispetto di quanto se ne abbia per il bel lago dalla perfetta corona d’erba che si è visto oltre la pianura salina cotta dal sole. La mattina abbiamo attraversato quella pianura a piedi e sappiamo che il lago non esiste. Ma ora è là, assolutamente vero, bello e credibile.