Sono andato a passeggio sul mare e ti ho pensata. Il mare, oramai da secoli, porta il tuo nome ad ogni infrangersi di onda sugli scogli. Quelle pietre, spigolose quanto la parola che le definisce, bollenti al sole, a tratti taglienti, come il tuo silenzio, che da anni si fa sentire ogni minuto che nasce e poi muore, senza interrompersi mai. Forse è per questo che lo odio tanto, il mare intendo. Forse è per questo che pur vivendo a cento passi di numero, contati in un giorno particolarmente caldo e noioso, non vado mai a trovarlo. Forse è per questo che pur avendo passato quasi dieci anni in questa città, mi son bagnato nelle sue acque raramente, dieci forse undici volte in tutto.
Eppure un tempo eravamo amici, sempre io e il mare intendo. Ci sposammo anche, in un’epoca lontana, come usavano fare a Venezia per la Festa della Sensa (l’Ascensione). Ci giurammo amore eterno e non avendo nessun anello, gli feci dono dell’unica cosa che in quel momento avevo con me, il mio orologio. Lo vidi cadere tra le onde tranquille che quella notte lambivano la scogliera di Calafuria e tra di noi fu pace e amore, fin quando non arrivasti tu. L’amavi talmente tanto, quella distesa incredibile di sale e acqua avvolta in un movimento infinito, quanto il tuo sospirare mentre la guardavi persa in chissà quali pensieri, che quando te ne andasti, senza troppo rumore, come scompaiono le cose belle, eteree e se vogliamo eterne, io cominciai, a poco a poco, giorno dopo giorno, a odiarla. Adesso non ci parliamo più e a chi mi propone di andare a trovarlo, di solito rispondo scuotendo la testa, spesso senza proferire verbo alcuno, a imitare quel silenzio creatosi tra di noi, infinito lamento di dolore che si protrarrà per il resto della mia esistenza.
Ieri sera sono tornato a stendere i passi sulla spiaggia, al tramonto. Non è stata una visita premeditata. Riaccompagnata Livia dalla mamma, ho fatto una piccola deviazione, diretto a un ristorante dove mi era improvvisamente venuta voglia di cenare. Sfortunatamente l’ho trovato chiuso, definitivamente chiuso, la quarantena si è portata via tante cose e tra queste, anche uno dei posti dove amavo andare a mangiare. È stato in quel momento, subito dopo aver letto quell’addio scritto con word, stampato su un foglio di carta anonimo e affisso a una serranda abbassata, che il mio sguardo si è allontanato, oltre la strada trafficata delle sei del pomeriggio, oltre la fila di palme, ad abbellire il lungomare di prati, sabbia e scogli, oltre tutto quanto, fino a raggiungere il mare sul quale si rifletteva la luce lievemente affievolita e un po’ arrossata del sole.
Ho così lasciato perdere la cena, attraversato la strada, i prati, raggiunto la spiaggia e là, tolte le scarpe mi sono messo a passeggiare sul bagnasciuga. Terribile quanto il mare, ancora a distanza di anni, sia legato al tuo ricordo, così indelebile da impedirmi di poter pensare ad altro, talmente pressante, a tratti insistente, il tuo volto appariva davanti alle mie pupille come se tu fossi lì con me. E dire che anni fa, ne scrissi al contrario, di te e del mare e di quanto mi fosse impossibile raffigurarti, perché quelle stesse onde che oggi mi restituiscono il tuo ricordo intatto, perfetto, nitido, all’epoca increspavano il tuo volto, trasfigurandolo, rendendolo completamente irriconoscibile.
Mi sposai con quel mare, io gli promisi rispetto e amore, lui contraccambiò offrendomi la sua protezione e ieri sera, mentre lo guardavo e parlavamo di te, quasi mi sono commosso per non essermi fidato, che forse mai nessuno sulla terra ha mai tenuto onore a una promessa, come ha fatto lui, arrivando a proteggermi perfino da te. Mi sono gettato in acqua vestito, incurante degli abiti e del sale e dell’acqua e del sole che dietro agli scogli esalava gli ultimi respiri prima di morire e strettolo tra le mie braccia gli ho chiesto scusa e lui l’ha chiesta a me e abbiamo riso insieme ricordandoti, come quando eri con noi, perché entrambi sappiamo distinguere quello che è transitivo da ciò che resta per l’eternità.