Suonala come se i tuoi capelli fossero in fiamme…

Traduzione completa dell’intervista di Elizabeth Gilbert a Tom Waits (GQ Magazine USA Giugno 2002)

Da bambino, non ha mai avuto l’aspetto del bimbo ideale, no, non l’ha mai avuto. Era piccolo, magro, pallido, quando stava in piedi assumeva posizioni buffe, aveva un ginocchio instabile, la psoriasi, il naso gocciolante, non c’era pettine, lozione o preghiera al mondo, che potesse far sì che i suoi capelli fossero pettinati e poi, leggeva troppi libri, era morbosamente affascinato dai carnevali, dai tesori sepolti, dalla musica mariachi. Quando era nervoso si dondolava avanti e indietro come un rabbino in preghiera. Era spesso nervoso. Inoltre, c’era qualcosa che non andava in lui, forse, pensa adesso, un lieve accenno d’autismo, un qualcosa che lo rendeva, quasi dolorosamente, ossessionato dal suono. Sentiva i rumori come Van Gogh vedeva i colori: esagerati, belli, scintillanti, spaventosi. Intorno a lui c’erano suoni che gli facevano drizzare i capelli, suoni che nessun altro sembrava sentire: le auto, che sfrecciavano sotto la finestra della sua camera rombavano più forte dei treni, se agitava il braccio vicino alla testa, sentiva un sibilo acuto nell’orecchio, qualcosa di simile al rumore della lenza quando viene lanciato l’amo in acqua, se scorreva la sua mano sulle lenzuola del letto, sentiva uno sfregamento duro, più ruvido di quello generato dallo scorrere delle dita sulla carta vetrata. Oppresso da questi rumori, si trovava costretto a sgombrare la mente recitando ad alta voce sillabe ritmiche senza senso: shack-a-bone, shack-a-bone, shack-a-bone, shack-a-bone, nenie tormentate che lo distraevano finché non riusciva a pensare ad altro. Quando aveva 11 anni, suo padre, un insegnante di spagnolo che era solito portare il figlio fuori San Diego e al di là del confine messicano per fargli tagliare i capelli, abbandonò la famiglia, così il bambino non ebbe più una figura maschile di riferimento accanto a sé. A seguito di ciò scaturì in lui una morbosa ossessione per i padri. Andava a casa dei suoi amici e dei vicini, non per uscire con loro, ma per vedere i loro padri. Mentre gli altri bambini correvano dietro al pallone, fuori, sotto il sole, lui si infilava in casa, nella sala buia, e sedeva lì con il padre di qualcuno, per l’intero pomeriggio, ascoltando dischi di Sinatra e parlando di assicurazioni sulla casa. Fingeva di essere un uomo più anziano, forse addirittura un padre. Seduto sulla sedia a dondolo come un uomo adulto, questo ragazzino magro avrebbe potuto schiarirsi la gola, e sporgendosi in avanti avrebbe potuto dire: “Allora, da quanto tempo sei con Aetna, Bob?”. Impazziva dalla voglia di invecchiare. Non vedeva l’ora di rasarsi. A 11 anni andava in giro indossando il cappello e il bastone del nonno. Amava la musica che amavano i vecchi, musica con qualche pelo brizzolato sul petto, musica il quale giorno era finito da un pezzo, musica morta, musica di papà: “Che ne dici di quella sezione di ottoni Bob?” diceva al padre di qualcuno mentre ascoltavano dischi durante un pomeriggio tranquillo, “Non si trovano più musicisti come questi, sbaglio Bob?”. Tutto ciò, accadeva più o meno quando lui frequentava la prima media, quindi, sì, nel caso ve lo stesse chiedendo, Tom Waits è sempre stato diverso.

Aspetto Tom Waits sulla veranda della Washoe House, una delle più antiche locande della California, immersa nella campagna erbosa della contea di Sonoma. Di fronte al portico, dall’altra parte della strada, si estende un vigneto, accanto c’è una fattoria e poco distante da essa, si trova la misteriosa e segreta località rurale in cui vive Tom Waits. È stata una sua decisione incontrarsi qui. Non è un mistero il perché gli piaccia questo posto: i pavimenti in legno irregolari, il pianoforte appiccicoso vicino al bar, le banconote da un dollaro ingiallite attaccate al soffitto, le cameriere stanche che hanno l’aria di essere vittime di amori difficili lunghi una vita, ogni storia in questo luogo è vera. Così, sto aspettando Tom Waits, quando un senzatetto si avvicina a me. Magro come un coltello, pelle segnata dalle intemperie, vestiti puliti, sbiaditi, occhi così pallidi che potrebbero essere quelli di un cieco, si trascina dietro un carretto decorato con palloncini e piume e cartelli che annunciano la fine del mondo. Quest’uomo, apprendo, sta camminando alla volta di Roswell, nel New Mexico, per l’apocalisse che avverrà in primavera. Gli chiedo come si chiama. Mi dice che è stato battezzato Roger, ma che Dio lo chiama con un altro nome: “Per anni ho sentito Dio che mi parlava, ma continuava a chiamarmi Peter, così ho pensato che avesse sbagliato persona. Poi ho capito che Peter doveva essere il mio vero nome. Così ora ascolto”. Senza allarmarsi troppo, Roger-Peter mi informa che l’intero pianeta sarà distrutto entro pochi mesi. Pandemonio selvaggio, follia e morte ovunque, tutti bruciati in cenere. Indica le auto che passano e dice con calma: “A queste persone piace la loro comoda vita, ma non gli piacerà affatto quando gli animali saranno liberi…”. Inutile dire che è incredibilmente appropriato che questo sia l’esatto momento in cui Tom Waits compare. Si avvicina al portico, magro come un coltello, pelle segnata dalle intemperie, vestiti puliti, sbiaditi: “Tom Waits”, dico, “ti presento Roger-Peter”. I due si stringono la mano, li osservo, si assomigliano incredibilmente, a prima vista, nessuno riuscirebbe a distinguere quale dei due sia l’eccentrico genio della musica e quale il derelitto vagabondo del giudizio universale. Certo, ci sono alcune differenze, naturalmente, Roger-Peter ha occhi più folli, ma Tom Waits ha una voce più folle. Waits, subito a suo agio con Roger-Peter, dice: “Sai, ti ho visto da queste parti proprio l’altra sera, mentre camminavi in mezzo all’autostrada”, “Dio reindirizza il traffico intorno a me, così non vengo investito…”, risponde Roger-Peter. “Non ne dubito. Mi piace il tuo carro. Dimmi qualcosa a proposito di tutti questi cartelli che hai scritto. Di che cosa parlano?”, “Ora ho finito di parlare”, dice Roger-Peter, non in modo scortese ma con fermezza, dopodiché si alza, ci dà una Bibbia come regalo d’addio, prende il suo carro e si dirige verso est per andare incontro alla distruzione totale dell’universo. Waits lo guarda andare via e, mentre entriamo, racconta di aver visto di recente un altro vagabondo con cartelli apocalittici che camminava sulla stessa strada: “Si è offerto di vendermi un’asina. Un’asina incinta. Sono dovuto andare a casa e chiedere a tutti se potevamo investire in un’asina incinta. Ma hanno deciso di no, sarebbe stato un problema troppo grande”.

Negli ultimi trent’anni, Tom Waits ha avuto, in questo paese, una carriera musicale diversa da quella di chiunque altro. La sua non è stata un’ascesa fulminea verso la fama, è semplicemente apparso, nelle vesti di un vagabondo solitario, scorbutico, tenero, malinconico, profondamente sperimentale, che cantava in lounge-bar, suonava il piano e indossava un vestito da 7 dollari e un cappello da vecchio, ed è quello che è rimasto. Sebbene si cimenti all’infinito con la sua musica (dal suo primo album, Closing Time del 1973, ci ha regalato un blues tragico, un jazz narcotico, una sinistra opera tedesca e deliranti mambi carnevaleschi da ubriaco, solo per citare alcuni stili), non ha mai modificato la sua immagine, a testimonianza del fatto che non si tratta di un’immagine. Tom Waits non appare molto in pubblico, anche se non è un eremita totale. Ogni tanto va in tournée, si è esibito al Tonight Show ed è anche apparso in alcuni film (The Cotton Club, Dracula di Francis Ford Coppola, Short Cuts di Robert Altman) come un brillante attore che ruba la scena. Tuttavia, preferisce la sua privacy. Ha accettato di incontrarmi oggi solo perché ha un nuovo album in uscita e pensa di doverlo probabilmente promuovere. In realtà, ha due album, uno si chiama Alice, l’altro Blood Money e della loro singola complessità e oscura bellezza discuteremo in un momento successivo di questo articolo, quindi tenetevi forte. Tom Waits non è, notoriamente, il più facile da intervistare. I giornalisti sono spesso frustrati con lui perché parla in modo poco comprensibile oppure non dà risposte dirette. Quando una volta gli fu chiesto perché avesse lasciato passare sei lunghi anni tra un album e l’altro, Waits rispose lapidariamente: “Ero bloccato nel traffico”. È noto per raccontare storie inventate su di sé, non certo per malizia, intendiamoci, soprattutto per passare il tempo. Si diverte a raccontare le bugie che sono state dette su di lui nel corso degli anni: “Mio padre era un lanciatore di coltelli”, dice, “Mia madre era una trapezista. Quindi eravamo una famiglia dello spettacolo”. Non è il tipo più commerciabile in circolazione, non ha l’aspetto convenzionale, né una voce molto bella, anzi è stato definito ‘voce roca’ così tante volte, nel corso dei decenni, che si potrebbe pensare che i giornalisti siano obbligati per legge a descriverlo in questo modo. Tom Waits si è un po’ stancato di questa descrizione, preferisce altre metafore. Una volta una ragazzina del Midwest gli scrisse una lettera in cui diceva che la sua voce le ricordava lo scoppio di un petardo e un clown, e lui le rispose, si che le rispose, scrisse: “Hai capito bene, piccola. Grazie per avermi ascoltato!”. Come autore di brani, ha un istinto impareggiabile per la malinconia e la melodia. Sua moglie dice che tutte le sue composizioni si possono dividere in due grandi categorie: ‘Grim Reaper’ e ‘Grand Weepers’, queste ultime vi faranno stramazzare al suolo dalla tristezza, mi viene in mente un brano devastante intitolato Christmas Card from a Hooker in Minneapolis. Non ha mai avuto una hit. Anche se Rod Stewart ha portato la sua Downtown Train in vetta alle classifiche, molti dei suoi brani non sono così adatti alle radio, per esempio, che ne dite di questo come testo pop accattivante: Uncle Bill will never leave a will/And the tumor’s as big as an egg/He has a mistress, she’s Puerto Rican/And I heard she has a wooden leg. Sono proprio questa oscurità e questa eccentricità che gli hanno impedito di diventare una megastar. Tuttavia, non è mai scomparso nell’oscurità. Per trent’anni, mentre stelle del rock più grandi e convenzionali brillavano e si scioglievano sotto i riflettori accesi intorno a lui, Tom Waits è rimasto sul suo palco laterale scarsamente illuminato, seduto al suo pianoforte o alla sua chitarra o al suo sousaphone o al suo campanaccio, o al suo tamburo da cinquanta galloni di olio, creando suoni straordinari per il suo pubblico fedele. Per quanto riguarda la devozione che ispira e il modo in cui ha rivendicato la sua posizione unica nella musica americana, l’artista ha solo questo da dire: “C’è un aspetto dell’entrare nel mondo dello spettacolo che è simile all’entrare nel circo. Impari che ci sono persone nello show business che fanno l’equivalente di mordere le teste dei polli, ma poi, naturalmente, ci sono gli acrobati… e le curiosità collaterali. Si lavora con quello che si ha. Beh, magari sono arrivato senza gambe, ma posso camminare sulle mani e suonare la chitarra. Quindi ho solo usato la mia immaginazione per lavorare con il sistema”.   

Tom Waits è pieno di informazioni. Si china vicino a me e dice: “Il ragno maschio. Dopo aver tessuto quattro fili della sua tela, si allontana di lato, solleva una zampa e li strimpella. L’accordo che si crea? Attira il ragno femmina. Sono curioso di conoscere questo accordo…”. Waits annota queste informazioni in un taccuino che porta sempre con sé, taccuino che è anche pieno di indicazioni stradali, canzoni incompiute e giochi dell’impiccato che ha fatto con il figlio più piccolo. La sua calligrafia è un folle ondeggiare di lettere maiuscole enormi e scarabocchiate, si potrebbe pensare che sia la calligrafia di un uomo storpio costretto a tenere la matita in bocca. Lo sfoglia, il suo taccuino, con lo sguardo assorto, concentrato, come se stesse sfogliando la sua memoria frammentata. Questo mi fornisce un’ottima occasione per fissare il suo volto. Ha un bell’aspetto per un uomo di 50, o quanti anni ha, è pulito e sobrio da quasi dieci anni e si vede, non fuma nemmeno più, nessun rigonfiamento lungo la mascella, occhi chiari, quattro profonde linee parallele incise sulla fronte, distanziate in modo uniforme quasi fossero state scavate con una forchetta da cucina. È molto più bello, persino affascinante, nella vita reale, piuttosto che sul palcoscenico e sullo schermo, dove, perso nella fatica dell’esibizione, spesso impiega contrazioni facciali sconcertanti, posture barcollanti e braccia che si agitano in modo spasmodico da farlo sembrare, e mi dispiace dirlo del mio eroe, la scimmia di un organista, ovviamente di dimensioni eccessive. Qui, di fronte a me, in questo vecchio e buio ristorante, non è altro che un uomo dignitoso, sembra persino in forma, il che mi porta a immaginare Tom Waits che fa jogging su un tapis roulant, in una palestra, “Ah, ecco un altro fatto interessante”, dice, “Heinz 57″ e afferra la bottiglia di Heinz 57 dal tavolo per illustrare la sua storia, “Tra il 1938 e il 1945”, dice, “la Heinz ha prodotto una zuppa solo in Germania. Era una zuppa alfabetica. Ma oltre a tutte le lettere dell’alfabeto, in ogni lattina c’erano anche le svastiche”, “Mi stai prendendo in giro”, mette giù la bottiglia, “Immagino che la chiamassero pastika”. È una bella storia, peccato che ulteriori indagini abbiano dimostrato che si tratta di una leggenda metropolitana, ma questo non ha molta importanza, l’importante è che faccia riflettere Tom Waits. Molte cose lo fanno riflettere. I maiali, per esempio. È preoccupato perché in questi giorni gli scienziati stanno impiantando geni umani nei maiali. A quanto pare, questo serve a garantire che gli organi interni dell’animale siano più compatibili con quelli dell’uomo, per facilitare i trapianti. Dal punto di vista etico, Waits ritiene che si tratti di un’idea orribile: “Inoltre, sta avendo un effetto inquietante sull’aspetto dei maiali, ho visto le loro foto, li guardi e dici: ‘Cavolo! Quello è lo zio Frank! Sembra proprio lui!’”.

Il che ci porta a sua moglie. È probabile che sia stata la moglie di Tom Waits a mostrargli la foto dei maiali-umani sperimentali, perché lei legge quattro giornali locali al giorno e ritaglia tutte le notizie più bizzarre. Potete anche scommettere che sia stata lei a scovare la storia della zuppa di pasta con la svastica, e se c’è qualcuno che abbia mai sentito l’accordo di accoppiamento del ragno maschio, probabilmente è sempre lei, Kathleen Brennan. Ma chi è Kathleen Brennan? Difficile da sapere con certezza, è la figura più misteriosa dell’intera mitologia di Tom Waits. Gli articoli di giornale e i comunicati stampa la descrivono sempre allo stesso modo, come: “moglie e collaboratrice di lunga data del cantante dalla voce roca”. Vedrete il suo nome su tutti gli album di Tom Waits dopo il 1985: “Tutte le canzoni scritte da Tom Waits e Kathleen Brennan”, è ovunque, ma invisibile. È riservata come un banchiere, rara come un unicorno, non parla mai con i giornalisti, ma è il centro di gravità di Tom Waits, la sua musa, la sua compagna e la madre dei suoi tre figli. A volte, quando lui si esibisce dal vivo, lo si sente borbottare, quasi tra sé e sé: “Questa è per Kathleen…”, prima di lanciarsi in una lenta e tenera interpretazione di Jersey Girl. Non ho mai incontrato questa donna e non so nulla di certo su di lei, tranne quello che mi ha detto suo marito, il che significa che è una persona completamente assemblata, nella mia mente, attraverso le parole di Tom Waits, il che significa che è la cosa più vicina a una canzone di Tom Waits vivente. Lui l’ha definita: “Una presenza incandescente nella mia vita e nella mia musica, è un rododendro, un’orchidea e una quercia”, l’ha descritta come un incrocio tra Eudora Welty e Joan Jett, per lui ha le quattro B: beauty, brightness, bravery, brain (bellezza, luminosità, coraggio e cervello). Insiste sul fatto che è lei la vera forza creativa della relazione, l’influenza selvaggia che sfida i limiti ‘pragmatici’ di lui e suscita intrighi in tutta la loro musica: “Lei fa sogni come Hieronymus Bosch, Inizia a raccontare in lingua e io butto giù tutto, lei parla al mio sottotesto, non al mio contesto”. Sostiene che lei ha ampliato così tanto la sua visione di artista che a stento riesce ad ascoltare la musica che scriveva prima del loro incontro, “Lei mi ha salvato”, dice, “Se non fosse stato per lei, ora starei suonando in una steak house. Non starei nemmeno suonando in una steak house. Sarei a cucinare in una steak house, lei è ‘l’airone’ della famiglia, io sono il ‘mulo’”.

“Ci siamo conosciuti a Capodanno”. Mi dice Tom Waits. Ama parlare di sua moglie. Si percepisce chiaramente il piacere che gli procura. Naturalmente cerca di non dare troppo nell’occhio, perché vuole proteggere la sua privacy, ecco perché a volte evita le domande degli intervistatori rilasciando tipiche storie Waitsiane senza senso, “Sì”, dirà, “È una pilota di ultraleggeri”, oppure, “È un’addetta alle bibite e gestisce un grande motel a Miami”, una volta ha dichiarato di essersi innamorato di Kathleen perché era l’unica in grado di infilarsi un ago da maglia nel labbro e continuare a bere caffè. Eppure vuole parlare di lei perché, si vede chiaramente, ama la sensazione che gli procura il suo nome in bocca. Si sono conosciuti a Hollywood, nei primi anni Ottanta. Waits stava scrivendo le musiche per il film di Coppola One from the Heart, e Kathleen Brennan era supervisore alla sceneggiatura del film. Il loro corteggiamento ha avuto tutto il delirio alcolico, rotatorio e temporalmente distorto di una bella festa di Capodanno in casa d’altri. Quando si sono innamorati per la prima volta, guidavano a folle velocità per Los Angeles a tutte le ore e lei cercava volontariamente di farlo perdere, solo per il gusto di divertirsi. Gli diceva di girare a sinistra, poi di salire sulla superstrada, poi di attraversare Adams Boulevard, poi di andare dritto nel ghetto, poi in un ghetto ancor peggiore, poi ancora a sinistra, ” Finimmo spesso nelle terra degli indiani”, ricorda Waits, “Dove nessuno avrebbe potuto credere che fossimo lì. Posti in cui potevano spararti solo perché indossavi il velluto a coste. Entravamo in questi bar, non so cosa ci proteggesse, ma eravamo carichi. Dio protegge gli ubriachi, gli sciocchi e i bambini piccoli. E i cani. Gesù, ci siamo divertiti così tanto”. Si sono sposati alla Always Forever Your Wedding Chapel su Manchester Boulevard a Watts, “L’incontro era previsto a mezzanotte per un matrimonio all’una di notte”, dice Waits, “Da queste parti facciamo in modo che le cose accadano!”. Si conoscevano da quanto? Due mesi? Forse tre? Dovettero chiamare il tizio che li avrebbe sposati, un pastore che portava sempre con sé un cercapersone, il reverendo Donald W. Washington, ” Lei pensava che fosse un cattivo presagio il fatto che il matrimonio costasse 70 dollari e che lei avesse cinquanta dollari e io solo venti, disse: ‘Questo è un pessimo modo di iniziare una relazione’, risposi: ‘Dai, piccola, mi farò perdonare, te li darò dopo…’. Non fu una gran luna di miele, poco dopo il matrimonio, la coppia si rese conto di essere al verde. Waits era già un musicista famoso, ma aveva commesso alcuni gravi errori da giovane artista con i contratti e il denaro, non aveva un soldo. Inoltre, era in rotta con il suo manager. E i grattacapi legali? Ovunque. E i produttori di studio che cercavano di mettere sezioni d’archi sdolcinate dietro le sue canzoni più cupe? E chi lo possedeva, esattamente? E come era successo? Fu a questo punto che la sua nuova sposa intervenne e incoraggiò il marito ad abbandonare tutta l’industria musicale. “Al diavolo…” suggerì Kathleen “Non hai bisogno di queste persone all’esterno, in ogni caso. Puoi produrre il tuo lavoro. Gestire la tua carriera. Arrangiare le tue canzoni. Dimentica la sicurezza. A chi serve la sicurezza quando hai la libertà?”, aveva ragione, entrambi sarebbero riusciti a cavarsela in qualche modo, a prescindere da tutto: “È come se dicesse sempre: ‘Qualsiasi cosa tu porti a casa, tesoro, la cucinerò io. Porti a casa un opossum e un procione? Vivremo di questo'”, conclude Waits. Il risultato della loro sfida fu Swordfishtrombones, una grande dichiarazione di indipendenza artistica, sfacciata, blueseggiante, con un’impronta gospel, dai toni scuri e adorata dalla critica. Un album come nessun altro prima di lui. Una linea tracciata con coraggio, che attraversa il centro dell’opera di Tom Waits, dividendo la sua vita in due categorie nette: Prima di Kathleen Brennan e dopo Kathleen Brennan. “Sì…”, dice Waits, che è ancora tutto preso da una folgorazione per lei, “è davvero radicale”.

Vivono in una vecchia casa di campagna. Hanno dei vicini, come il tizio che colleziona animali investiti sulla strada per laccarli e trasformarli in opere d’arte, e poi, poi ci sono gli Avventisti del Settimo Giorno e i Testimoni di Geova che bussano alla porta per parlare di Gesù. Waits li lascia sempre entrare, offre loro il caffè e ascolta educatamente le loro prediche, li ritiene delle persone dolci e sole. Solo di recente ha capito che loro potrebbero pensare lo stesso di lui. Waits guida una Cadillac Coup DeVille a quattro porte del 1960. È un’auto più grande di quanto probabilmente gli serva, e lo ammette: “Divora benzina, ha un odore terribile, la radio non funziona, ma è adatta a piccole gite di un giorno, come le visite alla discarica!”. Discariche, depositi di materiali di recupero, vendite di oggetti in disuso, negozi di rottami, questi sono i suoi ritiri speciali. Waits ama trovare oggetti strani e risonanti nascosti nelle profondità dei cumuli di rifiuti, oggetti che può salvare e trasformare in nuovi tipi di strumenti musicali, “Mi piace immaginare come si possa sentire l’oggetto che diventa musica”, dice, ” Immagina di essere il coperchio di un bidone da cinquanta galloni. Quello è il tuo lavoro. Lavori a quello. Questa è tutta la tua vita. Poi un giorno ti trovo e ti dico: ‘Ti facciamo un buco nel mezzo, ci passiamo un filo, ti appendiamo al soffitto dello studio, ti picchiamo con un martello e ora sei nel mondo dello spettacolo, baby!’”. A volte, però, si limita a cercare le porte. Ama le porte. Sono il suo più grande sfizio. Torna sempre a casa con altre porte: vittoriane, di fienile, francesi, sua moglie protesta in continuazione: “Abbiamo già delle porte!” e Waits risponde sempre a tono: “Questa ha delle finestre così belle, tesoro!”. La famiglia Waits ha anche un cane. Lui sente una particolare affinità con l’animale e ritiene che entrambi abbiano molto in comune: “I nervi”, dice, “Abbaiare a cose impercettibili. Il bisogno di marcare il territorio. Io sono un po’ così. Se sono stato via per tre giorni, quando torno a casa, la prima cosa che devo fare è girare per le stanze e stabilizzarmi di nuovo. Cammino dappertutto, tocco tutto, do calci alle cose, mi siedo ovunque. Lo faccio per ricordare alla casa e a tutti gli altri membri della famiglia che sono tornato”. È a casa quasi sempre perché, a differenza di altri papà, non ha un lavoro ‘diurno’ ed è conosciuto dalle scuole locali come l’uomo su cui contare ogni volta che hanno bisogno di un adulto che faccia da autista per una gita. “Sono favorevole alle gite”, dice Waits, “Ho la macchina grande. Sono sempre alla ricerca di un’occasione per avere nove passeggeri”. Di recente ha portato un gruppo di ragazzi in una fabbrica di chitarre: “Si trattava di una piccola impresa, gestita da gente che si occupa di musica, così ho aspettato che qualcuno mi riconoscesse. Ok, penso, qualcuno si avvicinerà e dirà: ‘Tu sei quel tipo, vero?’. Ecco, ero lì da circa due ore. Niente. Così mi sono incazzato, anzi, ho iniziato a mettermi in posa vicino alla vetrina. Ho aspetto ancora. Niente, niente per tutto il giorno. Tornato in macchina ero un po’ avvilito. Voglio dire, è il mio campo. Mi aspettavo un cenno o un occhiolino, ma niente…”, Waits fa una pausa per mescolare il caffè, “Una settimana dopo, siamo andati a fare un’altra gita. Una cosa sul riciclaggio e l’ecologia. Arriviamo alla discarica e sei ragazzi circondano la mia macchina: ‘Ehi! È Tom Waits!’”, scrolla le spalle stancamente, come se stesse raccontando la storia della sua vita, “Alla discarica mi conoscono tutti”.

Forse la caratteristica più singolare di Tom Waits come artista, la cosa che lo rende l’anti-Picasso, è il modo in cui ha intrecciato, con tanta arguzia e grazia, la sua vita creativa e la sua vita domestica. Questa sua capacità è in contrasto con tutti i nostri stereotipi sul modo in cui i geni lavorano, sui loro esplosivi rapporti interpersonali, sulle vite, in particolare quelle delle donne, che devono consumare, per alimentare la loro ispirazione, su tutta la dolorosa distruzione che lasciano sulla scia dell’invenzione. Ma questo non è Tom Waits. Collaboratore nell’animo, non ha mai dovuto fare la difficile scelta tra creazione e procreazione. In casa Waits, tutto è buttato lì insieme, tutto fuoriesce dalla cucina, che è anche l’ufficio, il luogo dove si disciplina il cane, dove si crescono i figli, dove si scrivono le canzoni e si versa il caffè per i predicatori erranti. Tutto questo influenza in qualche modo il resto. I bambini non sono mai stati un impedimento alla creatività, ma solo un’ulteriore fonte di ispirazione. Waits ricorda con piacere la volta in cui sua figlia lo aiutò a scrivere una canzone: “Eravamo su un autobus diretto a Los Angeles e fuori faceva molto freddo. C’era questa persona transgender, per essere politicamente corretti, in piedi in un angolo. Indossava un top molto scollato, trucco pesante sugli occhi, capelli tinti e una gonna molto corta. Questo ragazzo, o ragazza, ballava senza curarsi del resto. La mia bambina ha visto quella persona e ha detto: ‘Deve essere davvero difficile ballare così quando si ha così freddo e non c’è musica…’”. Waits prese la squisita osservazione della figlia e la trasformò in una ballata intitolata Hold On, una canzone di indicibile sofferenza e speranza che fu nominata per un Grammy e divenne la pietra miliare del suo album Mule Variations. “I bambini creano le migliori canzoni, comunque…”, dice, “Meglio degli adulti. I bambini lavorano sempre alle canzoni e le buttano via, come piccoli origami o aeroplani di carta. Non gli importa se le perdono, ne faranno altre, questa apertura è ciò di cui ogni artista ha bisogno. Essere pronti a ricevere l’ispirazione quando arriva, essere pronti a lasciarla andare quando svanisce…”. Tom Waits è convinto che: “Se una canzone vuole davvero essere scritta, rimarrà nella mia testa. Se non era abbastanza interessante da farsi ricordare, beh, può semplicemente spostarsi e andare a finire nella canzone di qualcun altro”. “Alcune canzoni”, ha imparato, “non vogliono essere registrate. Non si può lottare con loro o si rischia di spaventarle ancora di più. Cercare di catturarle a volte è come cercare di intrappolare gli uccelli. Fortunatamente, altre canzoni arrivano facilmente, come ‘scavare patate fuori dal terreno’. Altre sono appiccicose e strane, come ‘una gomma trovata sotto un vecchio tavolo’. I brani maldestri e poco collaborativi possono essere utili solo ‘per fare da esca e usarli per catturare altri brani’. Naturalmente, le canzoni migliori, sono quelle che ti entrano dentro ‘come sogni gustati con la cannuccia’. In quei momenti si può solo essere grati!”. Come un bambino intelligente con un nuovo giocattolo, Waits è sempre disposto a giocare con una nuova canzone, per vedere cos’altro può diventare. Ci giocherà per ore, dentro e fuori dallo studio, in modi che un adulto vero non immaginerebbe mai. La smonterà, la capovolgerà, la trascinerà all’indietro nel fango, ci passerà sopra in bicicletta, tutto ciò che può immaginare per farla suonare più spessa, più ruvida, più profonda, diversa, lo farà. “Mi piace la mia musica”, dice, “con la polpa, la pelle e i semi”. È sempre alla ricerca di nuovi modi di ascoltare o eseguire le cose, ” Suonate come se i vostri capelli fossero in fiamme”, ha detto ai musicisti in studio, quando non riusciva a spiegare la sua visione in altro modo, “Suonate come il Bar Mitzvah di un nano”. Waits vuole vedere le viscere del suono. Come l’architetto Frank Gehry, che ritiene che gli edifici siano più belli quando sono in costruzione piuttosto che finiti, Tom Waits ama vedere lo scheletro nudo della canzone, per questo trova che uno dei suoni più emozionanti di tutta la musica sia quello del riscaldamento di un’orchestra sinfonica: “C’è qualcosa in quel momento, quando non hanno idea di come suonano”, rapsodizza, “Qualcuno stringe i fili dei timpani, qualcun altro suona frammenti di una vecchia canzone che non eseguiva da molto tempo, altri ancora ripassano quel fraseggio sul quale continuano a inciampare. È come una fotografia documentaria: tutti fanno qualcosa senza sapere di essere osservati. E il pubblico parla e non presta attenzione perché non è ancora musica, giusto? Ma per me ci sono molte volte in cui le luci si abbassano, lo spettacolo inizia e io rimango deluso. Perché niente è all’altezza di quello che ho appena sentito”. Tom Waits detesta gli schemi, la familiarità e le abitudini. Ha smesso di suonare il pianoforte per un po’ perché, come dice, le sue mani erano diventate come vecchi cani, tornavano sempre nello stesso posto. Invece, immaginava di spingere il suo pianoforte giù per le scale e di registrare quel rumore. È noto che canta attraverso un megafono della polizia. Una volta ha registrato una canzone in cui lo strumento principale era una porta scricchiolante e in Blood Money, uno dei suoi nuovi album, ha registrato un assolo su una calliope, un enorme, ululante, infernale organo a vapore, noto soprattutto per la musica delle giostre. ” Ti dico,” dice Waits, “Suonare una calliope è un’esperienza. C’è un vecchio modo di dire: ‘Non lasciare mai che tua figlia sposi un suonatore di calliope’, perché sono tutti fuori di testa. La calliope è così rumorosa. Più rumorosa di una zampogna. Un tempo le usavano per annunciare l’arrivo del circo, perché si poteva letteralmente sentire a tre miglia di distanza. Immagina, una cosa che puoi sentire a tre miglia di distanza ce l’hai davanti, in uno studio… e la suoni come un pianoforte, con la faccia arrossata, i capelli raccolti e il sudore. Potresti urlare e nessuno ti sentirebbe. È probabilmente l’esperienza musicale più viscerale che abbia mai vissuto. E quando hai finito, ti senti come se dovessi andare dal dottore: ‘Mi dia un’occhiata, dottore, ho fatto un paio di numeri sulla calliope e voglio che mi faccia un controllo’”. A Tom Waits piace che una giornata in studio finisca, dice: “quando le mie ginocchia sono tutte scorticate, i miei pantaloni sono bagnati, i miei capelli sono sparsi da una parte e mi sento come se fossi stato nella buca della volpe tutto il giorno. Non credo che la comodità faccia bene alla musica. È bello uscire con le nocche scorticate, dopo aver lottato con qualcosa che non puoi vedere. Mi piace quando torno a casa alla fine della giornata di registrazione e qualcuno mi chiede: ‘Cosa ti è successo alla mano?’. E io, io non lo so, non so rispondere. Quando in sala registrazione puoi ballare anche con una caviglia rotta, allora è una buona giornata di lavoro. Una brutta giornata è quella in cui il suono giusto non si rivela”. Quando succede, che il suono non si riveli, Waits cammina in cerchi stretti, si dondola avanti e indietro, si passa la mano sul collo, si tira i capelli. Lui e Kathleen hanno un codice per questi momenti difficili, si dicono l’un l’altro: “Dottore, il nostro fenicottero è malato”, racconta, “Perché come si fa a curare un fenicottero malato? Perché gli cadono le piume? Perché ha gli occhi che colano? Perché è così depresso? Chi diavolo lo sa? È un fenicottero del cazzo, uno strano uccello straniero rosa. E la musica è altrettanto strana e straniera”. È in momenti difficili come questi che Kathleen si presenta con idee nuove: “E se suonassimo come se fossimo in Cina, ma con il banjo?”, e gli porta una danza popolare balinese da ascoltare, o vecchie registrazioni di grida e canti degli schiavi nei campi di cotone. Oppure gli toglie il fenicottero dalle mani per un po’, lo porta a spasso, cerca di fargli mangiare qualcosa. Chiedo a Tom Waits chi fa la maggior parte delle canzoni in casa: “Non c’è modo di giudicare. È come qualsiasi altra cosa in un buon matrimonio. A volte è fifty-fifty, a volte è novanta-dieci, a volte una persona fa tutto il lavoro, a volte l’altra…”. Con coraggio, ricorre a metafore: “Io lavo, lei asciuga”, “Io tengo il chiodo, lei batte il martello”, “Io sono il cacciatore, lei è la cuoca”, “Io porto a casa il fenicottero, lei lo decapita”. Alla fine, conclude così: “È come se due persone si chiedessero l’un l’altro in prestito gli stessi dieci dollari per anni. Dopo un po’, non li scrivi nemmeno più. Li metti semplicemente sul conto, ci si dimentica tutto”.

Ora, a proposito di questi due nuovi album. Si chiamano Alice e Blood Money. Sono registrazioni di canzoni che Waits ha scritto negli ultimi anni per il palcoscenico, in collaborazione con il visionario regista teatrale Robert Wilson. Alice è un ciclo sognante e struggente di canzoni d’amore, basate sulla storia reale di un pastore vittoriano di mezza età che si innamorò di un’incantevole bambina di nove anni. La bambina si chiamava Alice. Il pastore si chiamava Reverendo Charles Dodgson, ma è più conosciuto con il suo nome d’arte, Lewis Carroll e per il surreale, e non completamente adatto ai bambini, racconto per bambini, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, che scrisse per dare un messaggio d’amore alla bambina che adorava. In Alice, Waits usa la sua voce come se stesse cantando ninne nanne tormentate a qualcuno che sta morendo, o che se ne va per sempre, o che cresce troppo in fretta. Il secondo album, Blood Money, è completamente diverso. È basato sul capolavoro incompiuto del drammaturgo tedesco Georg Buchner, Woyzeck, che racconta di un soldato geloso che uccide la sua amante in un parco. Waits aveva pensato di chiamare l’album Woyzeck, ma poi ha concluso: “Cristo, chi comprerebbe un album con un titolo come Woyzeck?”. Questo album è tutto un ricco, complesso, misterioso, oscuro tomo sulla collisione dell’odio contro l’amore. Il suono non è del tutto industriale o irritante, ma c’è dissonanza nelle canzoni, si percepisce quasi un disagio fisico. Si tratta di piccole sporche nenie, con titoli grintosi come Misery Is The River Of The World e Everything Goes To Hell. Gli esperti dell’etichetta di Waits, la Anti, hanno avuto un colpo di genio quando hanno deciso di pubblicare questi due album contemporaneamente, perché i contrasti di Alice e Blood Money evidenziano perfettamente i due aspetti del carattere musicale di Waits che si scontrano da decenni nel suo lavoro. Da un lato, l’uomo che ha un istinto ineguagliabile per la melodia, nessuno può scrivere una ballata più straziante di Waits. Dall’altro lato, il fatto che egli ha dimostrato per tutta la vita il desiderio di disfare quelle belle melodie, affettarle come un macellaio, riorganizzarne le parti, a creare una nuova bestia grottesca e poi, lasciarle al sole a marcire. È quasi come se temesse, se si limitasse a scrivere belle ballate, di diventare Billy Joel. Ma ama troppo la musica anche per scrivere brani sperimentali puramente cerebrali come John Cage. Così fa entrambe le cose, andando avanti e indietro, a volte nello stesso album, a volte nella stessa canzone, a volte nella stessa frase. In passato, ha spiegato questa schizofrenia come una versione musicale del ciclo dell’alcolista: “prima sei gentile, poi fai un buco nel muro con un pugno, poi smaltisci la sbornia e ti scusi regalando fiori a tutti, poi ti schianti con la macchina in piscina…”. Questa tempestosa lotta con la musica è la storia della sua vita, perché se Tom Waits e il suono sono sempre stati infatuati l’uno dell’altro, il loro rapporto non è mai stato semplice, al contrario, è il tipo di relazione che lascia dietro di sé porcellane rotte. C’è stato un tempo, quando Waits era bambino, in cui non aveva ancora fatto pace con il suono ed era veramente tormentato dal disordine ubriaco che percepiva. Ricorda che i rumori di questo mondo gli sembravano insetti, insetti che scavavano in ogni muro, strisciavano sotto ogni fessura, penetravano in ogni stanza, rendendo il silenzio assoluto un’impossibilità assoluta. Con un’ipersensibilità del genere, aggiunta alla sua natura intrinsecamente oscura, Tom Waits avrebbe potuto facilmente impazzire, invece, si è imbarcato in una missione per organizzare una tregua tra sé e il suono, una tregua che, nel corso degli anni, è diventata qualcosa di simile a una collaborazione e che, con questi due nuovi album, ha finalmente il sapore di un vero e proprio matrimonio, perché qui, in Alice e Blood Money, si può vedere tutto ciò di cui Tom Waits è capace, tutta la bellezza e la perversione, tutto il talento e la discordia, tutto ciò che vuole onorare e tutto ciò che vuole smantellare, tutto ciò che è splendido, tutto ciò che è oscuro, tutto ciò che trasporta con sé. Il suo lavoro è così splendidamente coinvolgente che quando ascolterete queste canzoni vi sentirete come se qualcuno vi avesse bendato, ipnotizzato, dato dell’oppio, tolto l’orientamento e ora vi stesse conducendo all’indietro su un carosello delle vostre vite passate, chiedendovi di toccare tutti gli animali di legno polverosi raffiguranti le vostre vecchie paure e i vostri amori perduti, chiedendovi di riconoscerli con il solo tatto. O forse, è solo così che mi sono sentita io.

Alla fine di tutto, la sala da pranzo di questa vecchia locanda si è svuotata, riempita e svuotata di nuovo, più volte. Siamo seduti qui a parlare da ore. La luce è cambiata e cambiata ancora. Adesso Waits si stiracchia e dice che gli sembra di conoscermi così bene da essere quasi tentato di portarmi a visitare la discarica locale, “Non è lontana da qui”, dice. La discarica! Con Tom Waits! La mia mente freme al pensiero: noi due che sbattiamo sulle lamiere o soffiamo canzoni in vecchie bottiglie blu di latte di magnesia. Gesù, improvvisamente sento che non c’è niente che abbia mai desiderato di più che andare alla discarica con Tom Waits. Ma poi si accorge dell’ora e scuote la testa. Oggi una gita alla discarica è impossibile, a quanto pare. Doveva tornare a casa ore fa. Sua moglie si starà chiedendo dove sia finito. E comunque, se devo prendere quel volo da San Francisco dovrei muovermi, rifletto, “Ho ancora quindici minuti prima di dover partire!”, dico, non avendo ancora abbandonato il sogno, “Forse potremmo fare una corsa alla discarica, una visita veloce!”. Tom Waits mi guarda con aria grave. Il mio cuore sprofonda. Conosco già la risposta: “Quindici minuti non sarebbero giusti per la discarica”, dice, dimostrando di essere soprattutto un uomo giusto e rispettoso: “Quindici minuti sarebbero un insulto alla discarica”.