Riflessi, ricordi…ricordi, riflessi

Un messaggio ipnotico era nascosto in quel suo tono di voce, messaggio che delicatamente, tra un sorriso e l’altro rivolto all’aria circostante, mi trascinò in un mondo nascosto oltre il velo bianco, certamente non pietoso, piuttosto protettivo, che avevo steso su una vicenda lontana secoli da quel presente. Rimasi così, come un ebete, ad ascoltare. Il cervello, tabula rasa mandata in frantumi, riuscì a fatica a mettere insieme qualche vocabolo di circostanza, frasi fatte, ma non di niente, del minimo indispensabile per sostenermi, per non lasciarmi trascinare via dalla corrente di un fiume che non avevo mai osato attraversare, mentre sonorità che non udivo da tanto, troppo tempo, mi avvolgevano con l’ipnotica musicalità che soltanto una parte di me, inconsciamente, ricordò.

Il sole non aveva ancora completato il suo cammino, un sordido uccellino poco lontano, nascosto tra i rami di un albero del quale ignorai il nome, con il suo cinguettare invadente, si insinuò nell’orecchio libero, ladro di attenzioni. Un gatto nero miagolò imperterrito, reclamando il cibo, forse considerazione, sicuramente amore, con il suo sguardo torvo e le ferite di incidenti che furono, croci di guerra e di vita, marchiate tra i peli resi ispidi dall’età avanzata.

L’aria un minuto prima immobile, fu riempita da dialoghi surreali che stendendosi tra i rumori della campagna, la fecero vibrare, rendendola elettrica. Volevano esser storie a sé, ma c’era un prologo e forse un giorno ci sarebbe stato anche un epilogo e questo nessuno avrebbe mai potuto dimenticarlo. I passi lenti rumoreggiarono sui sassetti bianchi sparsi sull’aia, quello fu un altro tassello del mosaico della vita, che andò a collocarsi nel punto esatto dove l’artista lo voleva.

Le linee non erano più quelle di una volta, con la comunicazione che a tratti si interruppe o si desincronizzò, fu quasi impossibile mantenere una conversazione chiara, logica, temporalmente corretta, che avesse un senso, vero. Così, frasi costruite mentalmente, diventarono spezzoni irreali di sonorità, come se si fosse presa una jam session jazz e avessimo fatto ascoltare spezzoni sconnessi della registrazione, intervallati da silenzi. I fraseggi sarebbero diventati insopportabili, sconnessi, inutili, sconclusionati, l’emotività sarebbe improvvisamente svanita. Eccolo un esempio di silenzio che non contiene niente, quello involontario, deciso dagli strumenti utilizzati per comunicare, per ascoltare. Tu sei lì, che parli o che suoni, improvvisamente il niente che interrompe il flusso, che lascia tutto sospeso in un insopportabile frustrazione, riempita ora da un uccellino, ora dal miagolio di un gatto, ora dai rumori imprecisi della campagna e dallo sferraglio di un camion giallo della Gondrand, che si è portato via tutto quanto, dimenticando di caricare sul rimorchio quel che resta del nostro mondo.

Il sole sparì poco tempo dopo, la notte arrivò, il silenzio calò e quello sì che contenne rumori, quello sì che contenne sonorità lunghe millenni, eterni fraseggi circolari che si sparsero un po’ ovunque in uno spazio-tempo infinito, che mai è stato abitato, che mai lo sarà.