Di comprensione…

Non capivi cosa dicevo, spesso, soprattutto durante le discussioni più profonde, quelle che richiedevano una simbiosi perfetta tra il lessico, la pragmatica e le mille sfumature emotive che avvolgono ogni parola, ogni verbo. Sicura, forse troppo, a causa del mio esprimermi fluente nella tua lingua, fraintendevi quello che dicevo e non era colpa mia, né colpa tua, se in qualche discussione sui sentimenti, sull’amore, ci ritrovavamo davanti le problematiche che in passato, avevano causato lo scontro tra alcuni dei più grandi linguisti di tutti i tempi. Le voci di Chomsky, Skinner, Vigotskij mi risuonavano nelle orecchie, mentre cercavo di spiegarti che non mi capivi e tu, nella convinzione della mia conoscenza perfetta della lingua, ribattevi il contrario, che ammetter di aver frainteso, nello scontro tra culture, non è un comandamento contemplato, altrimenti che scontro sarebbe?

Spesso pensiamo che la vera violenza culturale avvenga sul piano religioso, su quello politico o nazionale, niente di più errato, nasce e affonda le sue radici sulla comprensione e l’interpretazione differente di semplici vocaboli, uno scontro tra significati scolpiti nella nostra mente fin da quando siamo piccoli, è lì che avviene il fraintendimento più grande – figuriamoci, se non riesci a capire la differenza tra un ti amo e un ti voglio bene, cosa cazzo puoi saperne di religione e di politica?

Non capivi, che se da un punto di vista tecnico, avrei potuto apprendere il francese alla perfezione, dall’altro non avrei mai compreso-appreso la pragmatica, l’empatia delle parole, le differenti sfumature che avvolgono vocaboli che posson sembrare simili. Allora eliminavo il verbo, che fin dal principio era stato tale e tornavo ai gesti, per evitare di trasformare la mia casa in quel tinello maron di Paolo Conte. Cercavo di seguire il suo consiglio e mi gettavo in rat-ta-rat, zum-zum e via di kazoo, che gesti e mugugni e sguardi e movimenti, qualcosa magari avrebbero potuto salvare, attutire lo scontro verbale, culturale.

Invidiavo gli artisti, scrittori, cantanti, poeti, attori, che trovandosi davanti all’impossibilità di spiegarsi, dell’esser compresi, di trasmettere completamente quello che provavano, quello che sentivano nel profondo, si erano rifugiati nella mimica, nel loro primitivo linguaggio, lontano magari dall’espressione comune a tutti e per questo incomprensibili ai più, se non agli animi sensibili almeno quanto loro, disposti ad abbandonare lo scontro culturale e a seguirli nel loro universo personale.

Massimo Troisi, Renato Carosone, Andrea Camilleri, Louis de Fùnes, Eduardo de Filippo, Tom Waits, Marcel Marceau e tanti altri, persone che hanno scelto di sporcare i loro panni nelle acque dei fiumi a loro cari, che se una lingua unica, potrebbe al limite anche unire i popoli, di certo la pragmatica legata all’empatia di certi vocaboli più sanguigni, sarà sempre la forza opponente, quella che ne alimenta il distacco.

E allora, tu che sai seguire i pittori e gli scultori nei loro deliri più assurdi, poiché il tuo occhio allenato a ogni tipo di forma e colore fin dal momento in cui nasci, riesce ad adattarsi a qualsiasi tipo di espressione visiva, avrai la forza di seguire le orme di chi trasmette la propria arte attraverso il linguaggio, fino in fondo, rischiando di perderti, di non capir niente di quello che udirai, poiché i tuoi orecchi son poco allenati in linguaggi che non siano il tuo, quello che parli da quando sei nato, sporcandoti dell’odore di significati a te lontani, rischiando di modificare il tuo modo di esprimerti e perfino di pensare?

Pensavo a questo mentre Livia faceva colazione e io le spiegavo che con me deve parlare sempre italiano. Mi spingevo anche oltre nei pensieri, arrivando a chiedermi, se come pensa il buon vecchio Noam Chomsky, qualcosa in lei non sia già geneticamente registrato, qualcosa che possa evitare futuri scontri emo-verbo-culturali tra di noi. Speriamo Noam, speriamo, ho già avuto la mia torre di Babele personale.