Di orologi rotti e percezione del tempo…

Una frase di Herman Hesse tratta da Il giuoco delle perle di vetro dice: Anche un orologio fermo segna due volte al giorno l’ora esatta. La frase estrapolata dal proprio contesto, come la maggior parte delle citazioni che vengono fatte minuto dopo minuto all’interno del web, può assumere ovviamente molteplici significati. Può essere vista come una riflessione sul tempo e sull’inutilità di misurarlo proprio a causa della sua inafferrabilità. In questo caso, se vi interessa il tempo, vi consiglio il libro divulgativo del fisico Carlo Rovelli: L’ordine del tempo, che fornisce ottimi spunti di riflessione su questo argomento. Sebbene a mio avviso, alcune tematiche ad esso legate, vengano trattate all’interno del testo in maniera superficiale, è comunque un’ottima lettura divulgativa. La frase di Hesse può esser vista perfino come una riflessione sulla follia, anche un pazzo ogni tanto riesce a dire qualcosa di sensato. Infine può essere interpretata, come certamente la intendeva colui che l’ha pensata. Almeno due volte al giorno, le lancette senza vita dell’orologio segnano l’ora esatta; anche noi, ingessati nelle nostre convinzioni, pensiamo di essere portatori di verità inossidabili, che invece spesso si rivelano errori. Facciamo affidamento sulle nostre conoscenze, sulle nostre capacità di metrizzare alcuni argomenti se non tutti (i famosi tuttologi), in realtà siamo soggetti all’errore più spesso di quello che pensiamo. Forse due volte al giorno possiamo dire una cosa giusta, questo ci fa credere che la nostra verità sia indiscutibile, rispetto a quella degli altri. È un ottimo spunto di riflessione di questi tempi.

Quello che io percepisco leggendo la frase di Hesse, letterariamente parlando, è la sensazione di un oggetto inutile, un orologio rotto o fermo, qualcosa che nasce per misurare, in questo caso il tempo, che non può più adempiere al suo compito, ma che comunque per inerzia, due volte al giorno lo fa. Il tempo al cospetto del suo misuratore rotto si trasforma e da dinamico, diventa statico, ridotto a due intervalli, quelli in cui l’ora effettiva corrisponde alle lancette ferme sull’orologio. È in quel momento che il senso del tempo, collegato al nostro vissuto e al flusso di coscienza che caratterizza la nostra percezione del mondo, perde di significato, rallentando, dilatandosi incredibilmente. Riflettendo bene, la stessa percezione ce l’ho anche in altre due situazioni. La prima è guardando il quadro di Dalì Persistenza della Memoria. Interessante è l’opinione della storica dell’arte Dawn Ades che scrisse, proprio riguardo a questa opera: Gli orologi molli sono un simbolo inconscio della relatività dello spazio e del tempo, una meditazione surrealistica sul crollo delle nostre nozioni riguardo ad un sistema cosmico immutabile. La seconda si verifica quando mi trovo a sostare davanti all’orologio fermo più famoso d’Italia, quello della stazione di Bologna che da quarant’anni esatti, praticamente tutta la mia vita, segna sempre le dieci e venticinque, ora in cui una bomba a tempo provocò quella che può essere considerata come la strage più sanguinosa mai vista in Italia.

Eppure, se prendiamo questo terribile evento della nostra storia recente, se riflettiamo su di esso, ritroviamo tutti i punti discussi nei paragrafi precedenti. La dilatazione temporale, il legame tra tempo e coscienza, l’inutilità del tempo stesso, la follia. Ci rendiamo anche conto di quanto l’inutilità di un orologio fermo, incapace di adempiere al suo compito principale, allo stesso tempo, lo renda portatore di memoria di un evento e di come, da divulgatore del falso, poiché in seguito alla perdita delle sue funzioni non segna più l’ora esatta, diventi esso stesso il principale richiedente di verità, colui che la reclama imperterrito, ogni giorno che nasce, ogni mattino in cui il sole, salendo da dietro le colline elencando a uno a uno i lampioni davanti la stazione, lo illumina coi suoi raggi. Unico caso al mondo di orologio fermo, che segna l’ora esatta soltanto una volta al giorno, le dieci e venticinque del mattino, quando trentacinque chili di tritolo si portarono via ottantacinque anime e ne mandarono in ospedale almeno duecento, il nostro eroe imperterrito, in quel preciso istante, trasmette attraverso le sue lancette ferme, le urla di quelle povere persone che ancora oggi, dopo quarant’anni, domandano giustizia.