Di Django Reinhardt, ricordi, mamme e dita perdute

Dieci maggio degli anni venti del duemila. Festa della mamma. Ultima domenica di confinamento, in Francia, dove vivo. Aperte le finestre mi accorgo che sta per piovere, il caffè è finito, l’auto distrutta in garage attende domani, giorno in cui il concessionario riaprirà e finalmente potrà essere, spero, visionata e riparata. Apparentemente una giornata di merda, penso, cercando del tè e trovando solo delle vecchie bustine di camomilla comprate chissà quando. Scaldo l’acqua e mi guardo riflesso nell’acciaio della cappa, quando mamma morì ero poco più alto della cucina che avevamo penso, mentre i miei occhi incrociano il loro riflesso e mi sembrano tristi, apparentemente una giornata di merda. La camomilla ha un odore strano, vecchio, sbiadito, come quei ricordi ai quali adesso sto pensando, roba di trentacinque anni fa, polverosa, accatastata nei meandri più oscuri della mia mente, dove raramente vado a cercar qualcosa, che son più dolori che sorrisi. Fuori ancora non piove, tra poco, ma ora no e i passanti escono dalla vicina Boulangerie con il pane caldo, il profumo arriva fino alla mia finestra.

Mia mamma faceva la cantante in un’orchestra da balera, donna bellissima, dolce, simpatica, ma quando ci siamo conosciuti non esibiva più la sua stupenda voce, cuciva in una pelletteria ed era piuttosto brava. Anche come cantante dicono fosse brava, purtroppo non l’ho mai sentita esibirsi e a cuor triste devo dire che oggi, a distanza di secoli dalla sua scomparsa, non riesco nemmeno a ricordare veramente il suono della sua voce, eccetto forse, quando immagino di essere chiamato per nome. In quel momento, qualcosa compare alle mie orecchie, ma chissà, sono stato chiamato talmente tante volte da persone che ho amato, per un ora o per un sempre, chi può dirlo se quella voce sia veramente lei. Fuori in strada una donna grida e mi distoglie dal ricordo di quei suoni.

Il momento con lei, che più è impresso nella mia memoria è la festa della mamma dell’ottantasette (secolo scorso). Mi aveva comprato Topolino, all’epoca leggevo solo quello, in regalo c’era un cuore di carta rossa per scrivere un messaggio di auguri alla mamma. Lei voleva che lo scrivessi, ma io mi rifiutavo e correvamo per casa, io che scappavo e lei che cercava di prendermi per farmi scrivere il messaggio, ridevamo.

Un lampo, un attimo fulmineo e corro verso il reparto fumetti della mia libreria. Solo due Topolini sono sopravvissuti a tutti questi anni, un numero uno originale che conservo gelosamente e quel numero della festa della mamma. Non lo leggo, ma lo sfoglio e sorrido, immaginando che quel ricordo, quella scena, stia avvenendo da qualche parte, proprio adesso.

Arriva una musica dalla finestra, ascolto nel silenzio di una quarantena ancora poco trafficata…è Django. No no, niente Tarantino o Franco Nero, Django Reinhardt il dio Francese del Manouche. Il pezzo lo riconosco a lampo, Nuages è inconfondibile per un ascoltatore del genere. Sorrido e penso che no, non è un giorno così brutto se qualcuno là fuori, in uno dei quartieri più ombrosi di Marsiglia ascolta Django. Così mi siedo, la camomilla oramai fredda, sfilano Nuages, Minor Swing, I’ll see you in my dreams, alcuni suonati in solo, altri in coppia con il violinista Stéphane Grappelli, mi emoziono e il giorno, non mi sembra poi così triste. Penso alle dita di Django che si muovono sulla chitarra. Quelle dita hanno una storia pazzesca. Era uno zingaro, suonava il banjo e viveva in una roulotte. Una notte, quando era ancora un ragazzo, nella sua casa mobile ci fu un incendio. Perse l’uso dell’anulare e del mignolo della mano destra ma con tenacia ed esercizio, contro tutti i pronostici di una medicina ancora troppo grezza, riuscì a superare il difetto motorio, a diventare uno dei più grandi chitarristi del mondo e a lasciarci un suono che, lo ascolti e dici: è Django! Proprio come ho fatto io poco fa.

Sorrido, penso a Emmet Ray (Sean Penn) in Accordi e Disaccordi di Woody Allen e al suo complesso di inferiorità nei confronti del popolare chitarrista e mentre lo faccio ritaglio un cuore e scrivo gli auguri a mia mamma, come ogni anno, che di dita forse ne ho perse dieci quel giorno, ma le mie canzoni per lei, ancora riesco a suonarle.