Gymnopédies e gli spazi vuoti della mia anima

E poi arrivano sere come quella di ieri, in cui mi sento molto malinconico. Non conosco il perché, non riesco mai a identificare i motivi che conducono i miei pensieri a passeggio su strapiombi, dai quali è impossibile vedere al di sotto, tanta è la nebbia che nasconde le bellezze del mondo in quei luoghi e tanto è il freddo che fa rabbrividire il mio corpo, rattristare la mia mente, congelare il mio cuore. Quando mi sento così, ascolto la Gymnopédies di Erik Satie, puro masochismo sentimentale, che mi solleva ancora di più verso le alte vette della malinconia. La popolare melodia, risveglia nella mia memoria, il ricordo di un freddo dicembre passato a Trieste. Fuori la pioggia e il mare in tempesta e dentro la grande hall dell’hotel, dove alloggiavo in occasione di un workshop, un professore di Harvard che la suonava in maniera sublime al pianoforte verticale, complemento d’arredo che saltuariamente si animava sotto le dita degli ospiti.

Satie, che compose questa meraviglia, viveva in un bilocale a Montmartre che lui chiamava l’armadio e del quale utilizzava solo una stanza, la seconda era sempre chiusa a chiave. Il contenuto di questa, venne scoperto solo dopo la sua morte, era piena di ombrelli di tutti i colori e forme, tenuti in maniera impeccabile, mai usati. Ombrelli come quello che avrei voluto avere io in quelle tre settimane di tempesta a Trieste, dove il sole mai si manifestò, coperto com’era dai grossi nuvoloni neri che, appena potevano, riversavano sulle nostre teste litri e litri di acqua, resa ancor più gelida dal vento freddo.

E capitai, una di quelle gelide sere, a cena in un ristorante anonimo, con un grande matematico russo, un uomo dalla mente geniale, incredibile giocatore di scacchi, che mi raccontò la vita della sua famiglia negli anni tra la fine dell’impero Russo e l’inizio dell’Unione Sovietica e con il quale, una volta rientrati in hotel speculammo sull’esistenza di Dio, seduti sui divanetti della hall, davanti al pianoforte che ci osservava silenzioso. Restammo in quel grande stanzone vuoto, fino alle prime luci dell’alba, quando un po’ di sole, l’unico di quei giorni, si fece vedere per qualche minuto, per poi scomparire inghiottito nuovamente dai nuvoloni inquietanti.

Ecco che ieri sera, ascoltando Satie, sono tornato a quei giorni, a quei piccoli dettagli dimenticati dietro al grande macigno che colpì la mia testa quando, alla fine di quell’incontro di lavoro, mi recai per qualche giorno in Toscana, prima di tornare negli Stati Uniti dove vivevo e scoprii che mio padre si era ammalato di cancro. All’epoca e adesso mi è stato e mi è impossibile non riflettere su quelle due settimane passate a Trieste, antecedenti a quella dannata scoperta, quel sole che non c’era mai, il freddo, la pioggia, il cielo nero, manifestazioni di un temporale ancor più grande che ben presto avrebbe spazzato via un’intera parte della mia vita. E dietro a tutto questo a far da colonna sonora, a riempire gli spazi vuoti tra il ticchettio della pioggia che cadeva e il rumore del vento che sbattendo contro le grandi vetrate della sala conferenze causava un fruscio strano, inquietante, terribile, la Gymnopédie di Satie, malinconica, triste, che si insinuava a riempire i silenzi tra un rumore e l’altro, tra un battito del mio cuore e l’altro.

Fu lui, sempre Satie, a proporre la cosiddetta musica d’arredamento, una musica che facesse parte dei rumori dell’ambiente in cui viene diffusa, che ne tenesse conto. Una musica melodiosa in grado di coprire il suono metallico delle posate sbattute dai commensali a tavola, senza però cancellarlo completamente, senza imporsi troppo. Una musica in grado appunto di riempire i silenzi in armonia con i rumori, magari cancellando l’imbarazzo dei commensali rimasti momentaneamente senza argomenti di cui parlare. Una musica in grado di neutralizzare i rumori della strada, delle auto, dei cantieri, della tempesta, di tutti i suoni che penetrano indiscretamente all’interno di una stanza. Ecco che Satie, allora come ieri sera, è arrivato a colmare quei silenzi che si formano in me, assecondando la mia tristezza, fino a farla svanire tra le sue note, fino a far tornare il mio cuore tranquillo, in una notte senza luna e con un po’ di vento, che mi ha visto addormentare e sognare il Golconda di Magritte, dove gli uomini con la bombetta, avevano in mano un ombrello aperto, come a proteggersi dagli altri uomini fluttuanti nel cielo, stavolta azzurro.